Intervista a Rosangela Pesenti

Intervista a Rosangela Pesenti sul decennio ’68-’78
Sabato 12 maggio sono stata intervistata da studenti nella sede dell’Istituto di Istruzione Superiore Savoia Benincasa di Ancona, dopo aver incontrato, nei giorni precedenti, quattro classi come “testimone” del decennio 1968-78, nell’ambito del progetto scolastico Sb Online e Onair volto ad avvicinare le/gli studenti agli strumenti della comunicazione giornalistico-radiofonica.
Nell’intervista faccio un errore facendo risalire al 1976 la proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale che fu invece presentata nel marzo del 1980 dopo una lunga campagna durante la quale furono raccolte 300.000 firme.
Il lapsus è probabilmente dovuto al fatto che per la mia generazione la questione della violenza esplose con il delitto del Circeo e il 4 dicembre del 1976 si tenne a Roma una grande manifestazione notturna contro la violenza sessuale che segnò l’avvio del dibattito che avrebbe portato alla presentazione della proposta di legge.
Ringrazio le/gli studenti e le/i docenti per l’accoglienza, l’attenzione e le tante preziose domande. Non avevo mai raccontato quel decennio come testimone ma solo come insegnante.
In quei dieci anni la mia vita è cambiata completamente e ho compiuto scelte fondamentali.
Raccontando mi sono resa conto che sotto le narrazioni ufficiali degli anni di piombo, segnati da stragi fasciste e terrorismo di vario segno, scorre il cambiamento epocale determinato dalle donne nelle relazioni e con la conquista di leggi che hanno cominciato a rendere autentico l’aggettivo democratica accanto al nome Repubblica del nostro Stato.
Li ringrazio per avermi presentata con una citazione dal mio libro Trasloco, pubblicato 20 anni fa, che non ricordavo:
“Avevo quindici anni nel ’68, sedici quando Piazza Fontana esplose: le immagini che scorrevano nel telegiornale della sera aprivano interrogativi che mi avrebbero separata per sempre, e salvaguardata, dalle rete fitta di ipocrisie che costringono alla feroce convivenza delle zone grigie. Non possedevo una lingua se non quella abrasiva che scorticava i miei sentimenti rendendomeli irriconoscibili. I giovani rivoluzionari, che quegli anni producevano in discreto numero anche qui, usavano parole gonfie e sconosciute. Li seguivo perché li sentivo compagni della mia stessa rivolta: un bisogno fisico, prima che morale, di rigurgitare il perbenismo obbediente a cui ci convertiva un sogno di opulenza, ma non riconoscevo nella loro vita i bisogni e i disagi di cui vivevo. Chi grida mi ha sempre ispirato paura e diffidenza eppure per anni solo nel grido avrei desiderato riconoscere la mia voce. C’erano maledizioni più profonde nelle nostre vite, appartenenze non innocenti che prima o poi avrebbero separato anche le nostre strade.”