Intervento Rosangela Pesenti per Donne Manifeste digitali

Pubblichiamo l’intervento della Presidente dell’Associazione Nazionale Archivi dell’UDI alla presentazione di Donne Manifeste digitali presso l’Archivio Centrale UDI

 

rosangela pesenti linda giuva

Donne Manifeste Digitali
Rosangela Pesenti e Linda Giuva

Dirò delle cose “di parte”, non come studiosa quindi ma come attivista dell’Udi.

Qualche settimana fa sono stata a parlare del decennio ‘68-‘78 con alcune classi di un liceo di Ancona.
Si tratta del decennio in cui si forma la mia coscienza politica: avevo 15 anni nel ‘68 e nel ‘78, a venticinque anni, avevo già compiuto alcune scelte che avrebbero determinato la mia vita negli anni successivi.
Il 1978 è anche l’anno in cui entro nell’Udi.

Ad Ancona mi veniva richiesto un racconto personale, non una lezione di storia, ma è ovvio che la grande storia è lo sfondo con cui si è misurata la mia vita con la scoperta della politica.
Ho scelto di raccontare il decennio attraverso la storia dell’UDI e attraverso la storia politica delle donne italiane. Ho raccontato il modo in cui le donne, sullo sfondo della grande storia, segnano la nostra giovane democrazia proprio attraverso le leggi che si snodano tra il ‘68 e il ‘78, quelle leggi fondamentali che fondano l’autodeterminazione delle donne e quindi determinano un passo importante nella storia della democrazia italiana.

Se noi percorriamo infatti la storia politica del nostro paese dal punto di vista delle donne e delle loro associazioni scopriamo un’altra storia che spesso passa sotto traccia rispetto alla vulgata tradizionale, ma si tratta di una storia che tiene il filo robusto della democrazia in un decennio che la vulgata, appunto, racconta come anni di piombo, segnati dalle stragi fasciste fino all’assassinio di Moro.

Sotto la storia che loro avevano studiato sui libri, la lotta armata, le stragi, i ragazzi del ’68, che sembrano diventare tutti terroristi, delinquenti quindi, prende forma un’altra storia, che forse anche noi per tanto tempo non siamo riuscite a vedere.

Noi, le ragazze del ’68, non vedevamo la storia delle donne e quindi non vedevamo noi stesse.

Abbiamo scoperto più avanti che si trattava di una storia importante, in cui l’Udi ha un posto di primo piano, anche se certamente con altre formazioni politiche, altre associazioni femminili e poi con la spinta dei movimenti femministi. Le femministe eravamo noi, le ragazze del ’68 che scoprivamo una storia cominciata ben prima del ’68 e ben prima di noi.

Una storia politica di donne cominciata dentro la Resistenza che faticosamente, di conquista in conquista, arriva alla vittoria del 1981 al referendum sull’aborto.

Una vittoria che non è solo dell’Udi, ma che vede l’Udi in prima fila come l’associazione che ha lavorato di più e in modo diffuso per far emergere il problema aborto, conquistare una legge fondata sull’autodeterminazione della donna e poi mantenerla attraverso una capillare campagna a favore del No all’abrogazione.

Una storia che mette al centro anche i diritti di bambini e bambine con la richiesta di asili nido e il diritto allo studio che comincia a tre anni: una storia che mette al centro cambiamenti fondamentali nelle relazioni tra i generi e le generazioni, come scriviamo adesso.

I manifesti dell’Udi raccontano le tappe di questa storia che, di fatto, è la lunga storia dell’acquisizione piena della cittadinanza femminile nel dopoguerra italiano.

Perciò sono molto grata prima di tutto alle donne che hanno conservato questi manifesti, perché sappiamo che conservare documenti non è cosa da poco e conservare manifesti è ancora più complicato perché si tratta di trovare forme, modi e luoghi.

Ricordo quando in sede ci chiedevamo se piegarli o arrotolarli, che sembrano quesiti stupidi e poi invece non lo sono ai fini dei criteri archivistici della conservazione, che deve garantire l’integrità del documento.

Le donne dell’Udi hanno sempre saputo quanto investimento politico ci fosse nei manifesti, che sono anche una sorta di fotografia collettiva.

Dall’importante fondo fotografico dell’Udi vediamo che  sono relativamente poche le fotografie individuali, anche le dirigenti non si sono compiaciute nell’autorappresentazione delle soggettività singole, si sono presentate poco come individue, nonostante avessero spesso biografie straordinarie, e sono poco presenti anche i gruppi dirigenti fuori dai momenti ufficiali.
Le donne dell’Udi prediligevano le fotografie collettive che esprimevano il senso politico dell’essere molte, e insieme, e le fotografie delle manifestazioni rendono bene l’intuizione e l’ambizione di voler essere un’associazione di massa, come si diceva agli albori della Repubblica.

Qualche volta la quantità che diventa massa sembra segnalare una sorta di passività rispetto alla leadership e invece proprio la sintesi grafica dei manifesti ci consente di leggere l’espressione di una soggettività politica collettiva che si è fondata sulle urgenze i bisogni e i desideri di migliaia di singole vite.

Non si possono capire i manifesti dell’Udi se non ci confrontiamo anche con i dati della loro diffusione che ha comportato un enorme e diffuso impegno di donne che in quei manifesti si riconoscevano.

Una collettività di donne ha conservato questi manifesti che oggi viene presa in carico da un altro tipo di collettività, dalle professioniste che si sono variamente occupate della digitalizzazione, studiose che occupano finalmente gli spazi della ricerca concretizzando nell’esito delle loro vite il lavoro politico dell’associazione stessa per il raggiungimento della parità e il sogno delle generazioni di donne che hanno spinto le figlie a studiare.

Questo passaggio indica la continuità dell’incontro con le istituzioni, con cui l’Udi non ha avuto paura anche di scontrarsi, e che in questa vicenda segnalano un dialogo proficuo per entrambi i soggetti, associazione e istituzione, come ci hanno già illustrato le studiose che si sono occupate materialmente della digitalizzazioni con tutti i problemi connessi per la novità di un lavoro che può essere definito lungimirante oltre che eccellente.

Quello che noi celebriamo oggi è un dialogo che costruisce cittadinanza in continuità con tutta una storia dell’Udi, della quale noi stesse siamo state figlie e possiamo con orgoglio lasciare come eredità concreta alle generazioni più giovani.

Sono qui perciò con gratitudine per le donne, tutte le donne che si sono occupate, e anche oggi si prendono cura, dell’archivio centrale.

Mi sembra che servano queste “cerimonie” anche per dare riconoscimento al lavoro fatto perché il riconoscimento fonda sia la riconoscenza che la conoscenza: sappiamo chi siamo nel riconoscerci reciprocamente.

Sono la presidente dell’Associazione nazionale degli archivi dell’UDI, più di quaranta archivi regolarmente censiti, molti messi in rete, come quelli dell’Emilia Romagna, e tutti variamente valorizzati dagli enti ed associazioni che li conservano, a partire dall’Archivio Centrale che ha un valore trainante come dimostra anche questa bella occasione.

Come sappiamo oggi non è facile tenere in piedi un’associazione e le difficoltà aumentano per un’associazione di archivi come quelli dell’Udi perché, come certo sapete, molti di questi archivi non sono nelle sedi dell’Udi ma in altri luoghi associativi o istituzionali, biblioteche, comuni, istituti storici, e il compito dell’associazione nazionale è proprio quello di mantenere aperta la comunicazione tra gli archivi.

L’associazione archivi non è conosciuta nemmeno tra le donne dell’Udi  e alcune ne chiedono il senso dato che l’Udi esiste ancora.
Il senso di questa associazione è proprio quello di mettere in rete anche gli archivi in deposito o di proprietà di enti che non potrebbero associarsi all’Udi.
Ci siamo complicate la vita, noi dell’Udi, perché abbiamo sentito la responsabilità di non disperdere un patrimonio anche garantendo la possibilità di comunicazione e interazione tra tutti gli archivi per mantenere la continuità storica unitaria di un patrimonio documentario dislocato in tutta Italia.

All’associazione archivi ad esempio è associato il Comune di Pegognaga a cui è stato donato l’archivio dell’Udi di Mantova e l’amministrazione ha investito sul suo riordino e fruizione in modo mirabile, anche attraverso la presenza di una straordinaria bibliotecaria archivista come Angelica Bertellini che si è innamorata della storia racchiusa nei documenti.

Allo stesso modo è associato l’ISREC di Bergamo dove ho depositato l’archivio dell’Udi provinciale o il Centro Documentazione Donne di Modena dove c’è il locale archivio Udi insieme a fondi personali molto importanti come quello di Gina Borellini.

La digitalizzazione delle carte e la comunicazione via Web costituiscono una possibilità nuova per la messa in rete dei documenti e una loro più ampia fruizione, anche per uscire da quello che in modo rozzo voglio definire come un certo settarismo nella storia delle donne per il quale gli archivi dell’Udi sono stati a lungo ignorati quando si discuteva di documentazione della storia delle donne italiane.

Quando scorro il programma di certi convegni molto interessanti mi chiedo se davvero possiamo permetterci il lusso di ignorare l’esistenza di una cinquantina di archivi di quella che è stata, lo si voglia o no, la prima, più diffusa e più importante associazione politica delle donne italiane nella storia della Repubblica.

Si può davvero fare la storia del femminismo in Italia prescindendo dall’esistenza dell’Udi?

Non è segno di superficialità e provincialismo pensare che le donne dell’Udi fossero solo donne subalterne a partiti o a uomini?

Non è possibile pensare invece che le donne dell’Udi furono determinanti in luoghi istituzioni e partiti, come accade più spesso di quanto pensiamo?

La cancellazione dell’Udi segnala un problema politico, oltre che storiografico, perché indica un’incapacità di guardare le donne per ciò che sono realmente nella vita.

Il web può essere uno strumento che facilita l’accesso a ragazze e ragazzi e che ci aiuta anche ad instaurare un dialogo internazionale come quello di cui parlava Fiorenza Taricone prima di me, con una consapevolezza storica che ci può aiutare a scrivere l’agenda dei compiti per l’oggi.

Sono qui infatti oggi prima di tutto come attivista femminista dell’Udi consapevole che i compiti che ci aspettano sono ancora molti e la storia ci può sostenere nella visione di un passato che ci illumina sul futuro perciò, come direbbe Lidia Menapace, c’è lavoro e gloria per tutte.

 

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